RENÉ MAYER, LA SCULTURA CONTEMPORANEA E LA MATERIA

Il divario dei materiali

Che cos’è una scultura contemporanea? Questa domanda, apparentemente semplice, richiede più che una definizione una mappatura in continua evoluzione. La scultura non è più una disciplina limitata da un materiale nobile o da uno strumento riconoscibile. Oggi è attraversata da una moltitudine di pratiche, approcci e gesti che ne sconvolgono i fondamenti tradizionali. Gli artisti manipolano il bronzo o la gomma da masticare, il marmo o il metallo arrugginito, l’argilla, la resina, la cenere, il tessuto, lo zucchero o l’aria stessa. Non è più la stabilità del materiale a fondare l’opera, ma ciò che l’artista ne fa: il modo in cui lo mette in gioco in uno spazio di attesa, di interruzione, di contatto o di instabilità.

Per Rachel Whiteread, l’esperienza del vuoto diventa centrale. Modellando l’interno di oggetti familiari – vasche da bagno, materassi, librerie o interi edifici – trasforma l’assenza in presenza. ‘House’ (1993), riproduzione identica dello spazio vuoto di una casa operaia dell’East End londinese, è tanto un gesto commemorativo quanto un atto scultoreo. Laddove la scultura classica accumula, Whiteread inverte e sottrae.

Tony Cragg, dal canto suo, esplora la mutazione incessante delle forme. Il suo lavoro, nato dal riciclaggio negli anni ’80, si è evoluto verso strutture sinuose che sembrano allo stesso tempo naturali e artificiali. In ‘Forminifera’ (1993), assembla oggetti manifatturieri per costituire un insieme organico, ibrido, che sfugge a qualsiasi classificazione.

Cragg parla infatti di ‘sculture del pensiero’, sottolineando la loro capacità di attivare l’immaginazione tanto quanto la percezione. Berlinde De Bruyckere, dal canto suo, sviluppa una scultura che disturba, sconvolge, ridefinisce l’ordine dello sguardo. Lavorando con cera, legno, pelle e frammenti di tessuto, produce forme umane deformate, anonime, mutilate. ‘Kreupelhout – Cripplewood’ (2012-13), esposta alla Biennale di Venezia, presenta un tronco d’albero bendato, coperto di cicatrici, disteso come un corpo convalescente. La materia è qui ferita, vissuto, memoria carnale. Il pathos non viene da un’immagine, ma dalla materia stessa.

In Ernesto Neto, la scultura diventa immersione sensoriale. Le sue installazioni morbide, realizzate in Lycra elastica riempita di spezie o sabbia, sono sospese al soffitto, sfiorate dai corpi, attivate dai passi. In ‘Leviathan Thot’ (2006), installata al Pantheon di Parigi, il visitatore entra in un organismo viscido, odoroso, tattile. Qui la scultura non è più un oggetto da vedere, ma un’atmosfera da attraversare. Il materiale è lì per modificare il comportamento dello spettatore, spostarne il centro di gravità.

Questa evoluzione comporta una profonda ridefinizione della scultura contemporanea e della materia. Ciò che ieri era importante – la durata, la massa, la verticalità, la nobiltà del materiale – non è più sufficiente. Oggi la materia è attiva, resistente, simbolica, a volte effimera. Diventa veicolo di interrogativi sul corpo, sul tempo, sulla memoria, sullo spazio sociale. Non è più un mezzo al servizio di una forma, ma un’ipotesi da sperimentare. Così, la scultura contemporanea e la materia si intrecciano incessantemente, in un regime di sperimentazione in cui il visibile non è mai separato dal tattile, dal politico, dal vivente.

Materia attiva – materia resistente

Da Richard Serra, sappiamo che una scultura non si contempla: sposta, contrappone, obbliga. In ‘Tilted Arc’ (1981), un’enorme curva d’acciaio imposta nello spazio pubblico, l’opera non si prestava ad essere ammirata o aggirata senza sforzo. Richiedeva una decisione fisica. Questo modo di scolpire lo spazio sociale’ costringendo il corpo ad agire, piuttosto che a vedere, ridefinisce ciò che la materia può fare. Una scultura non significa più solo ciò che mostra, ma ciò che provoca.

Questa logica non esclude la scomparsa. Gianni Motti spinge questa idea al limite: nelle sue ‘sculture invisibili’, il materiale viene abolito, sostituito da un atto o da una situazione. Quando si attribuisce la responsabilità di eventi mediatici o attraversa un luogo senza lasciare tracce tangibili, è il vuoto ad agire. L’opera è il rumore del proprio verificarsi.

Susana Solano, dal canto suo, crea spazi ripiegati, spesso in lamiera d’acciaio ossidata. L’interno è inaccessibile. Le sue sculture come ‘Interior’ (1990) sembrano offrire un riparo, ma ne impediscono l’occupazione. Frustrano l’uso, resistono all’approccio. È un materiale che esclude, ma proprio per questo coinvolge.

Erwin Wurm prende la controparte. Dà alla scultura un tempo istantaneo. Nelle sue ‘One Minute Sculptures’, lo spettatore diventa il materiale provvisorio di una postura assurda: sdraiato su una sedia con una zucchina sulla testa o piegato sotto un tavolo in equilibrio su una bottiglia. La materia è qui comportamentale. La forma è temporanea, ma la sua assurdità colpisce, come un bagliore fugace nel campo scultoreo.

All’estremo opposto, Giuseppe Penone esplora la lentezza. Rimuove la corteccia di un albero per rivelarne il tronco originario, o incide impronte umane su rami, pietre o bronzo. La materia non è modellata, ma rivelata, come se portasse in sé l’idea della sua forma. Non compone, ma espone ciò che era già lì, in potenza.

Anish Kapoor, al contrario, lavora sull’indiscernibile. In ‘Descent into Limbo’ (1992), un buco nero di profondità indefinita apre letteralmente il pavimento. Nulla da toccare, nulla da comprendere. Solo vertigini. La materia scompare per lasciare spazio a una densità ottica, a un’incertezza geometrica.

Cornelia Parker, invece, frammenta. La sua famosa ‘Cold Dark Matter: An Exploded View’ (1991) è la sospensione minuziosa dei resti di una casetta da giardino esplosa, ricreata nello spazio. Ogni frammento galleggia. L’opera è allo stesso tempo esplosione, arresto, ricomposizione. La materia è dispersa, ma resiste, grazie al ricordo dello shock.

Così, nella scultura contemporanea, la materia non è né stabile, né nobile, né gerarchica. Può essere mancante, molle, esplosiva, imprevedibile. Ma è sempre indirizzata. Agisce, resiste, ferisce o assorbe. Non ha più solo una forma: è, in sé stessa, l’enigma. E in questo uso instabile della materia, la scultura smette di designare un oggetto. Diventa un’operazione, un atto, una soglia da attraversare. Questo è il territorio mutevole che la scultura contemporanea e la materia disegnano oggi.

Entrata di una figura

In un paesaggio scultoreo frammentato dove la materia tende a scomparire, a frammentarsi, a liquefarsi o a concettualizzarsi, René Mayer fa un passo di lato. Non ne contesta le evoluzioni, le osserva. E da questa distanza sceglie qualcos’altro: tornare al gesto, alla mano, al volume tangibile. 

Il suo punto di partenza non è né una teoria né un protocollo critico, ma un rapporto sensoriale con la materia. Modellare l’argilla, costruire una forma compatta e silenziosa, inscrivervi una presenza: questo è il suo atto iniziale, solitario, tattile, non spettacolare.

Ma questo primo atto, personale, ha un seguito. René Mayer non si ferma all’oggetto modellato. Affida i suoi modelli a laboratori specializzati, in grado di trasporre in marmo o granito questi volumi nati dall’intuizione. Non scolpisce la pietra, ma dirige gli scalpellini. L’opera cambia scala, cambia mano, cambia resistenza. Non è più il lavoro di un solo uomo, ma di un processo collettivo. All’origine: un’intuizione fragile. Alla fine: una forma stabile, duratura, sovrana. Questo passaggio, da un modello da laboratorio a una forma monumentale scolpita nella materia nobile, mette in discussione il concetto stesso di autore.

Cosa pensare allora di quest’opera così dispiegata? La statuetta è già un’opera d’arte in sé o uno strumento di lavoro? Il pezzo finale, prodotto da altri ma sotto la sua direzione, è ancora scultura o già design? René Mayer non si pronuncia. Rivendica entrambi i regimi. Vuole creare senza vincoli, nella libertà del momento, ma anche inserire le sue forme in una continuità di materia, durata, leggibilità. Ciò che inventa da solo, accetta che sia completato da altri. Ciò che modella d’istinto, accetta di farlo persistere secondo una logica artigianale.

Nella serie “Marmo & granito”, questa logica raggiunge un punto di svolta. I pezzi, scolpiti con una precisione che evoca l’oreficeria monumentale, potrebbero perfettamente inserirsi in un processo di produzione in serie. L’idea di riproducibilità è lì, in potenza. Eppure, ogni scultura conserva la singolarità della sua origine: una forma trovata, non programmata. È questa ambivalenza che rende il lavoro di René Mayer così difficile da classificare: esso deriva tanto da un’economia artigianale quanto da una logica di design, tanto da un immaginario dell’unicità quanto da un pensiero della serie.

Al contrario, la serie “Viva Viva” segue un approccio opposto. Qui nulla passa per l’atelier o la riproduzione. Ogni scultura è modellata, dipinta e rifinita da René Mayer in persona. Terracotta, colori vivaci, forme giocose e istintive. Sono opere immediate, complete, chiuse. Non scendono a compromessi. Laddove “Marmo & granito” si costruisce in una delega controllata, “Viva Viva” non si delega. La mano dell’artista è ovunque, in ogni curva, in ogni imperfezione, in ogni scintillio di colore.

Questa tensione tra due regimi di lavoro – collettivo e individuale, incrementale e immediato, artigianale e artistico – non cerca di essere risolta. Essa struttura l’insieme dell’opera scultorea di René Mayer. Ed è forse questa la sua singolarità: assumere una posizione ambigua, al crocevia tra arte e design, senza mai ridurre l’uno all’altro. Qui non c’è purezza. C’è un pensiero plastico fluido, che accetta di trasformarsi senza perdersi, di negoziare senza dissolversi.

Due famiglie – un unico soffio

Le due grandi serie scultoree di René Mayer, “Viva Viva” e “Marmo & granito”, incarnano un’apparente polarità e una più profonda unità. L’una si sviluppa in un regime di immediatezza, gioco, vitalità cromatica; l’altra in una lentezza controllata, in un rapporto frontale con la massa, l’equilibrio, il taglio. Il contrasto è evidente: da un lato, sculture colorate, modellate a mano, in terracotta, dipinte con colori acrilici, dalle forme dinamiche ed espressive. Dall’altro, volumi scuri o chiari, levigati, scolpiti nel marmo nero o nel granito verde, secondo una geometria silenziosa e stabile.

Eppure, “Viva Viva” e “Marmo & granito” non sono due opere, ma due modalità di uno stesso respiro plastico. Ciò che le accomuna non è lo stile, né il formato, né tantomeno il metodo, ma un atteggiamento. René Mayer non cerca mai l’effetto, ma la presenza. In entrambi i casi, si tratta di far emergere una forma che si impone per il suo significato tanto quanto per la sua fattura, e questo non come un messaggio, ma come un corpo nello spazio.

Paolo Bonfiglio parla giustamente di ‘sculture cefalopodi, senza bocca ma con uno sguardo immenso’. È un’espressione azzeccata, che rende bene il paradosso: queste opere non ci parlano, ma ci guardano. Non hanno né volto né intenzioni, ma si rivolgono a noi. Questo sguardo – o meglio questa esposizione muta – rimanda a ciò che Georges Didi-Huberman chiama il ‘visivo puro’, quel momento in cui l’immagine (o qui la forma) non serve più a vedere altro, ma ci obbliga a vedere ciò che è, lì, davanti a noi.

In “Viva Viva”, ogni scultura è unica, irriproducibile, non ritoccata. René Mayer lavora la terra come un pittore lavora il suo schizzo: velocemente, direttamente, con concentrazione. Alcuni pezzi evocano giocattoli arcaici, animali totemici, figure ludiche. Altri, come “The transparent eye”, “Meeting Point of Two” o “Piercing Glaze”, sono più astratti, ma conservano una dinamica interna, un movimento fermato in pieno volo. Non si tratta di simboli, ma di organismi. Il loro colore non è decorativo: accentua la percezione del volume, la tensione tra interno ed esterno, superficie e densità.

La serie “Mamo & granito” procede invece per cristallizzazione. René Mayer modella una piccola scultura in argilla, poi ne affida la realizzazione monumentale a laboratori specializzati in India. Il processo è lento, tecnico, rigoroso. I pezzi ottenuti – “The Egoist”, “Holy Moly”, “The Physicist” – non cercano di impressionare per le dimensioni o il materiale, ma di stabilizzare una forma pensata. Si offrono alla luce, alla pioggia, al tempo. Il loro silenzio non è ritiro: è persistenza. Come scrive Jean-Luc Nancy, ‘ciò che fa un’opera è ciò che resiste, ciò che resiste alla scomparsa nel flussò.

Questo dialogo tra creazione immediata e trasposizione differita, tra atto intimo e oggetto collettivo, è al centro della scultura contemporanea e della materia così come la esplora René Mayer. Egli non cerca di fondere i due regimi, ma li lascia coesistere, come due voci parallele. Una esprime l’istante, l’altra la permanenza. Una impegna il gesto, l’altra la materia. Ma entrambe cercano la stessa cosa: una forma giusta, che regga, che resista, senza giustificarsi.

In questo doppio percorso, René Mayer si ricollega a modo suo alla riflessione di Henri Focillon in ‘Vie des formes’: ‘La materia è una potenza. Non è lì per essere domata, ma per essere compresa’. È con questo spirito che lavora. Non per imporre, ma per ascoltare la forma che emerge. Una forma al confine tra arte e design, né scultura classica né oggetto funzionale, ma che materializza quel momento di equilibrio fluttuante in cui qualcosa prende improvvisamente corpo.

Archetipi e frammenti

Le forme scolpite da René Mayer non imitano nulla, ma evocano molto. Non sono figurative, ma non sono astratte in senso modernista. Appartengono a un territorio intermedio, fatto di reminiscenze, associazioni, allusioni. Non mostrano il corpo, ne conservano la memoria. Una testa senza volto, una silhouette senza sesso, un busto spaccato, un occhio senza orbita: questi frammenti non raccontano una caduta, ma una persistenza. Non esprimono né dolore né esaltazione, ma una sorta di muta resistenza. Sono lì, come presenze emerse dall’immagine precedente, come se la scultura contemporanea e la materia ritrovassero qui il potere di far apparire senza mostrare.

Questa tensione non è nuova. La troviamo in Germaine Richier, nei suoi corpi transitori tra vegetale, animale e umano. In Jean Fautrier, nei suoi ‘Otages ravinés’. In Magdalena Abakanowicz, nelle sue folle di individui senza volto, in piedi, anonimi. Ma in René Mayer il carico simbolico è tenuto a distanza. Non c’è pathos né discorso. La deformazione non è sofferenza, è evidenza. L’incompiuto non è una debolezza, è una forma.

In “The Egoist”, blocco compatto dalla testa globosa, lo sguardo è un’assenza scavata. In “Holy Moly”, verticalità rigorosa incisa da nicchie, la forma sembra attendere una voce che non arriverà mai. In “The Other Side”, due metà di figure sembrano affrontarsi senza mai incontrarsi. Queste sculture non rimandano a un mito, ma a una condizione: essere lì, in piedi, senza giustificazione

Henri Focillon scriveva che ‘ogni forma vive una vita propria, indipendente da ciò che può rappresentare’. René Mayer sembra aver preso alla lettera questo postulato. Ogni forma che crea è un’entità, un’unità autosufficiente, ma porosa. Non racconta nulla, ma lascia trasparire una relazione. La forma non è un contenitore, è un contatto. La postura, la frontalità, l’equilibrio interno delle sue sculture evocano archetipi: non simboli universali, ma configurazioni arcaiche, preverbali. Non sono statue, sono figure. Forme in piedi, che guardano senza vedere, nominabili senza nome. Il loro mutismo è attivo. Ci costringono a rimanere davanti a loro, in quella zona di incertezza che Didi-Huberman chiama ‘presenza pura’. 

In questo senso, René Mayer non cerca essenzialmente di creare opere leggibili. Cerca forme che durino. Non solo nella materia, ma nello sguardo. Come se ogni scultura, piuttosto che essere offerta, fosse in attesa: in attesa di un suolo che la fissi, di un cielo che la illumini, di un corpo che le risponda. Non cadono dal cielo, ma salgono dall’oscurità. Sono frammenti di umanità, non nella loro sconfitta, ma nella loro ostinazione.

Il luogo come estensione della forma

Installate sulle colline piemontesi, posate sull’erba, tra gli alberi o le pietre, le sculture di René Mayer non sembrano ‘esposte’, ma semplicemente presenti. Non sono lì per essere viste, ma per abitare, per coesistere con la luce, le stagioni, il muschio, gli insetti e le persone. Il tempo non le danneggia: le lucida. Non le cancella, ma le incide. Come ‘Regina e Re’ di Henry Moore, installate a Dumfries in uno scenario naturale, le forme di René Mayer trovano il loro terroir, la loro soglia, il loro suolo. Non cercano un piedistallo, ma un ancoraggio.

Questo rapporto con il luogo è tanto più forte in quanto le sue sculture non impongono nulla. Si inseriscono nell’ambiente, lo ascoltano. Il marmo verde scuro diventa muschio. Il granito riflette la luce come acqua stagnante. La materia diventa modesta, opaca, ed è proprio questa discrezione che agisce. A differenza di tante opere contemporanee che colonizzano lo spazio, René Mayer lascia che le sue sculture si adattino, senza un piano, senza un sistema. Si depositano.

Prendono il loro posto ritirandosi. Questo rapporto di rispetto – o di umiltà – non è estraneo al modo in cui alcune delle sue forme hanno visto la luce. Nella serie “Viva Viva”, ispirata alle statuette policrome messicane, le sculture in terracotta dipinte evocano, senza mai copiarle, le maschere del carnevale di Basilea. René Mayer conosce queste figure fin dall’infanzia. Le ha osservate, indossate, affrontate per le strade e tra i coriandoli. La loro sproporzione, la bocca spalancata, i colori vivaci, il potere grottesco ma sempre controllato hanno lasciato un segno. Ma in lui non c’è nulla di direttamente citato: sono reminiscenze. Non è la maschera che viene ripresa, ma l’atteggiamento, l’irrompere, l’energia condensata in una testa senza collo o in un occhio spostato.

Ciò che le accomuna – queste maschere carnevalesche e le sculture di René Mayer – è quella che Bachtin chiamava ‘corporeità festosa’: il modo in cui il corpo grottesco è in trasformazione, in eccesso, in contatto permanente con il suo mondo. In René Mayer, la scultura non chiude nulla. Rimane aperta, porosa, sospesa. Non erige un monumento, inventa un luogo.

In questo senso, le sculture di René Mayer appartengono tanto al paesaggio quanto alla storia del volume. Non tracciano una linea, ma scavano una nicchia. Un modo di essere al mondo attraverso la forma, una forma che non cerca di brillare, ma di rimanere. E in questo modo di insediarsi – senza discorsi, senza enfasi – la scultura contemporanea e la materia trovano una possibilità di durata che non si oppone al vivente, ma si accorda con esso.

Conclusione – Una forma di insistenza

In un’epoca dominata dall’obbligo della rapidità, dalla circolazione dei segni, dalla volatilità delle immagini, l’opera scultorea di René Mayer propone una forma di resistenza silenziosa. Non un’opposizione teorica o critica, ma un tranquillo rifiuto di seguire il ritmo. Non c’è nulla da dimostrare, nulla da illustrare, nulla da commentare. Solo una forma che persiste, una presenza che va sostenuta – fisicamente, mentalmente, temporalmente. La scultura contemporanea e la materia non sono per lui categorie da tematizzare, ma un terreno di esperienza, un campo di attenzione.

Ciò che René Mayer contrappone all’effimero non è il monumentale, ma la consistenza. Non la pesantezza, ma la gravità. Non la solennità, ma la densità. Le sue sculture, anche le più colorate, non cercano l’occhio, cercano un rifugio. Anche i suoi pezzi più ludici – i “Viva Viva” dalle forme lisce e quasi danzanti – rispondono alla stessa esigenza: modellare, spostare, ricominciare, far stare in piedi. Vi ritroviamo la levigatezza del legno galleggiante, la plasticità di un ricordo, la libertà improvvisata di una maschera di carnevale, ma senza aneddoti. È una festa senza rumore, un’apparizione senza spettacolo.

Nei “Marmo e granito”, questa volontà prende la forma di un passaggio: dalla mano solitaria alla mano collettiva, dal modellato al levigato, dall’atelier alla manifattura. La questione non è più quella dell’autore, ma della forma che si stabilizza senza perdere la sua singolarità. In un mondo in cui tutto può essere prodotto, pubblicato, riprodotto, René Mayer mantiene il gesto iniziale come punto di ancoraggio. E anche quando l’opera viene ripresa, amplificata, trasposta, rimane legata a quel gesto.

C’è in lui qualcosa che rimanda all’artigianato profondo, nel senso inteso da Richard Sennett: un impegno attento nel processo di fabbricazione, che obbliga ad adeguare il proprio corpo, la propria mente e il proprio tempo a ciò che si sta facendo’. René Mayer non teorizza. Lavora. Scolpisce, aggiusta, orienta, osserva. Ciò che lascia dietro di sé sono forme che hanno superato la prova della materia e dello sguardo, che entrano nella durata.

Quindi, ciò che propone René Mayer non è un messaggio scultoreo, ma una forma di insistenza: un modo di esistere nel tempo, senza enfasi. Sfatare l’eloquenza, riaffermare la gravità delle forme. Non seguire il flusso, ma tracciarvi una soglia, qualcosa che non passa, che costringe a rimanere.

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