Un tema di fondo – il caso come principio esistenziale
Il caso nell’arte contemporanea è spesso affrontato attraverso pratiche formali: tecniche casuali, improvvisazioni, interventi esterni o decostruzione di scelte consapevoli. Tuttavia, per René Mayer, il caso non si limita a un metodo. Diventa un tema, un principio filosofico. Attraverso la serie “Mutazioni furtive”, il pittore e scultore svizzero fa del caso nell’arte contemporanea una chiave di lettura della nostra epoca, della nostra condizione umana, della nostra cecità collettiva di fronte ai rischi che generiamo.
La scelta del gettone da casinò come motivo centrale di questa serie non è casuale, anzi. Esso condensa in sé una serie di significati: il caso, naturalmente, ma anche la speculazione, la perdita di controllo, la fede nella fortuna e quel modo contemporaneo di delegare le nostre responsabilità a forze che pretendiamo di non controllare. Il gettone non è qui uno strumento formale o un ornamento visivo. È portatore di significato. Nei quadri di René Mayer, si allinea e si ripete. Compone superfici calibrate, astratte, ma ogni elemento ricorda che ‘giochiamo con la Terra come se fosse un casinò’, per riprendere le parole dello stesso artista.
Questa scelta non è solo estetica: è concettuale. Inserendo un simbolo del gioco e della scommessa al centro della composizione, René Mayer interroga il modo in cui le società contemporanee integrano – o rifiutano di integrare – il fattore dell’imprevedibilità nelle loro strutture. In un mondo saturo di dati, algoritmi e simulazioni predittive, il caso disturba perché sfugge. Ma è lì, inesorabile. René Mayer non cerca di domarlo né di elevarlo a assoluto: lo mostra nella sua nuda realtà, come una condizione dell’esistenza umana, una tensione tra calcolo e ignoto.
Il caso nell’arte contemporanea, in questa prospettiva, diventa uno specchio della nostra epoca: un’epoca che ha rinunciato all’idea del controllo totale, ma che fatica ad accettare le conseguenze dei propri giochi. René Mayer non moralizza. Non mette in scena il caos. Ne mostra le tracce minuscole, le derive quasi invisibili, la lenta erosione dei punti di riferimento. Ciò che propone è una riflessione visiva sulla fragilità degli equilibri, un modo per tradurre in forma la vulnerabilità dei sistemi umani. Come ha sottolineato Arthur Danto, ogni opera d’arte contiene una filosofia implicita: qui si esprime nel sottile divario tra ciò che pensiamo di controllare e ciò che ci sfugge.
Una pratica nuova – dipingere con il caso
Dal 2024, René Mayer ha introdotto un elemento nuovo nella sua pratica: l’uso di un pendolo dotato di un dispositivo di dispersione della pittura. Questo pendolo, sospeso sopra la tela, viene messo in movimento circolare o lineare e traccia sulla superficie una traiettoria imprevedibile, dettata sia dalle leggi della fisica che dalle micro-variazioni del gesto iniziale. Il risultato: spruzzi di vernice che non possono essere né pianificati né riprodotti.
Questa tecnica, apparentemente ludica, si basa su una logica rigorosa. René Mayer non delega tutta la creazione al pendolo: sceglie i colori, le posizioni, le velocità. Prepara il contesto. Ma poi accetta ciò che la traiettoria produce. Anche in questo caso non si tratta di un effetto spettacolare, ma di un dialogo discreto con l’imprevedibile. Questo gesto è consustanziale allo spirito delle “Mutazioni furtive”: integra il caso non come rottura ma come informazione.
Combinando queste dispersioni libere con le rigide griglie dei gettoni, René Mayer sovrappone due logiche: quella del controllo (la ripetizione, la griglia, la trama) e quella del caso (il lancio, la colatura, la deriva). Non sceglie tra le due. Le mette in tensione, le fa coabitare nella stessa immagine. In questo modo, traduce visivamente quella dualità che ci abita: il nostro desiderio di prevedere tutto e la nostra cronica incapacità di anticipare.
Il pendolo agisce qui come un rivelatore. Non crea la forma, la libera. E questa forma, attraversata dal caso, sconvolge la superficie ordinata e immobile delle composizioni precedenti. Reintroduce il vivente, l’instabile, il tremito, senza però distruggere l’insieme. È un’estetica della perturbazione delicata, un passo di lato in una struttura troppo ben regolata. In una prospettiva più ampia, questa tecnica mette anche in discussione il confine tra l’autore e il dispositivo. Introducendo una macchina semplice ma indeterminata nel suo processo, René Mayer modifica la posizione dell’artista rispetto all’opera. Egli non è più solo l’esecutore, ma l’istigatore di un sistema semi-aperto. Egli orchestra le condizioni di possibilità, senza garantire il risultato. Questo passaggio da un modello autoritario a un modello distributivo del gesto riprende alcune preoccupazioni del pensiero critico contemporaneo, in Hans Ulrich Obrist o Pierre Restany, sulla progressiva scomparsa della figura dell’artista onnipotente.
Da questo punto di vista, l’uso del pendolo non è un semplice effetto plastico. Diventa uno strumento di oggettivazione del gesto, un agente esterno che costringe a rinunciare al controllo totale. Ciò non diminuisce la responsabilità dell’artista, al contrario: la ridefinisce. René Mayer rimane padrone della cornice, ma accetta che questa venga sconvolta, che il senso emerga nell’imprevedibile. Questo parziale e profondamente meditato lasciar andare conferisce all’opera una nuova densità, un modo di aprire la forma all’evento senza dissolverla nel puro caso.
Quando gettoni e griglie creano perturbazioni – un’estetica del quasi-ordine
Nella maggior parte delle opere della serie “Mutazioni furtive”, la struttura generale è perfettamente stabile: linee, colonne, cerchi. Tutto sembra ripetitivo, quasi algoritmico. Ma guardando da vicino, si osservano piccole anomalie, minuscole dissonanze visive: una leggera inclinazione, una variazione di tonalità, uno scarto microscopico.
Queste deviazioni sono la materia stessa del quadro. Incarna l’idea che il disordine non proviene mai dall’esterno, ma dal cuore stesso del sistema. È a questo livello che il caso nell’arte contemporanea assume una dimensione critica: non è più una rottura spettacolare, ma un disordine interno, progressivo, quasi invisibile.
Questa logica della minima differenza ricorda alcune ricerche di Gottfried Böhm sulla percezione delle forme e l’interpretazione delle immagini. Non è il motivo a creare il significato, ma la differenza rispetto al motivo. René Mayer lavora in questa zona grigia tra ripetizione e variazione, tra struttura e fuga. Non dipinge il caso: dipinge le sue tracce.
Il gettone da casinò, in questo contesto, diventa uno strumento di tensione. Cristallizza un mondo di regole arbitrarie (il gioco), di valori fittizi (la puntata), di decisioni irreversibili (il lancio). Fissandoli sulla tela, René Mayer li ferma, li congela, li rende visibili. Va sottolineato che i gettoni non si muovono. Sono accuratamente incollati alla superficie, definitivamente integrati nella composizione. Ma colorandoli in modo diverso, inclinandoli, disponendoli secondo logiche non uniformi, introduce delle falle, dei segnali deboli, delle zone di interpretazione. L’opera non impone nulla. Suggerisce un’instabilità sottostante, un movimento sotto la forma.
In questa tensione tra ordine e perturbazione si delinea una vera e propria etica formale: l’arte come luogo di dolce allerta, di presa di coscienza visiva. Nessuna dimostrazione, nessuna narrazione. Solo una superficie che vibra, che resiste alla lettura immediata, che costringe a rallentare.
Questo gioco di differenze quasi impercettibili richiede una sensibilità attiva da parte dello spettatore.
Quest’ultimo deve ricomporre l’immagine non seguendo un senso narrativo, ma interpretando la variazione come un segnale. Attraverso questa microdinamica, René Mayer trasforma la ripetizione in interrogativo, la griglia in terreno di osservazione. Ogni gettone diventa un’unità di informazione, un modulo critico. La regolarità non è più uno sfondo neutro, ma un piano di lettura instabile.
In questo senso, l’insieme delle “Mutazioni furtive” può essere letto come un’allegoria formale della società del controllo. Laddove un tempo le rotture erano visibili e brutali, gli scarti attuali sono progressivi, lenti, quasi impercettibili. René Mayer traspone questo concetto nel linguaggio plastico: rende percepibile ciò che altrove è diluito nell’abitudine. L’occhio, abituato a cercare un senso nell’eccezione, è qui costretto a cercarlo nella ripetizione sfalsata, nella sottile differenza. È una strategia di attenzione lenta, vicina a quella sostenuta da Aby Warburg di fronte alla sovrasaturazione dei segni: vedere è prima di tutto saper distinguere ciò che, nell’apparente stabilità, comincia a vacillare.
Confronti – Duchamp, Cage, Pollock… e Mayer
È allettante confrontare l’approccio di René Mayer con quello di altri artisti che hanno lavorato con o sul caso nell’arte contemporanea.
Marcel Duchamp, naturalmente, con i suoi ‘Three Standard Stoppages’ (dove dei fili caduti a terra diventano la misura di una nuova regola), o i suoi “ready made” scelti ‘per dispettò’. John Cage, che introduce il ‘I Ching’ nella composizione musicale. Jackson Pollock, che lascia scorrere la pittura secondo i movimenti del corpo. O ancora Jean Arp, che lasciava cadere pezzi di carta sulla tela e li fissava dove erano caduti.
Tuttavia, René Mayer non si inserisce in questa radicalità. Non abbandona mai il controllo, né nella scelta degli elementi, né nella loro disposizione. Crea sistemi in cui il caso nell’arte contemporanea agisce come un elemento di disturbo interno, non come un principio assoluto. In questo, il suo approccio si avvicina maggiormente a quello di Sol LeWitt o François Morellet, che definivano regole rigide lasciando però che una parte di casualità intervenisse nell’esecuzione.
Ciò che distingue René Mayer, tuttavia, è l’associazione del motivo (il gettone) a un forte carico simbolico. Non si tratta di un semplice gioco di forme. C’è un’idea sottesa: quella di un mondo in balia di decisioni prese alla cieca, di una società che gioca con parametri che non controlla più. Il quadro diventa così un dispositivo critico, non spettacolare, ma insidioso. Si insinua dolcemente nello sguardo, ma lo trasforma in modo duraturo.
Questo approccio si distingue anche per la sua assenza di effetto. Laddove Cage o Arp ponevano il gesto casuale al centro del processo, René Mayer rimane nell’economia del segno e del dettaglio. Ciò che gli interessa non è lo shock di una forma imprevedibile, ma la lenta deriva di una struttura apparentemente stabile. Si potrebbe persino dire che René Mayer opera una traduzione silenziosa del linguaggio del caso, riportandolo a una grammatica più interiorizzata, quasi introspettiva.
Si ricollega così a una tradizione critica più sotterranea, dove il caso è un’ipotesi di lettura piuttosto che un manifesto. Questo avvicina il suo lavoro a un certo minimalismo europeo, dove il minimo spostamento è portatore di significato. Ma a differenza di queste correnti spesso formali, René Mayer introduce una dimensione politica discreta. Non denuncia, ma rende visibile ciò che governa le nostre scelte collettive. È questo che conferisce alle sue opere una potenza sorda: esse articolano, in uno spazio ridotto, questioni vaste.
Nel panorama contemporaneo, pochi artisti articolano con tanta sottigliezza un contenuto sociale a scelte formali astratte. René Mayer non rivendica alcun messaggio. Non commenta. Ma mostra. E ciò che mostra è un mondo instabile, bello, ma fondato su una parte di casualità non assunta.
Casualità e responsabilità – una tensione etica
L’intrusione del caso, nell’arte come nella vita, solleva una questione di responsabilità. Se tutto è casuale, chi è responsabile? L’artista? Il sistema? Lo spettatore? René Mayer lavora su questa tensione. Non si nasconde dietro il caso per sottrarsi alle sue scelte. Al contrario, utilizza il caso per porre la questione delle nostre scelte collettive.
Le sue opere, con la loro composizione precisa e il loro uso discreto del disordine, ci confrontano con il nostro rapporto con il rischio, la probabilità, la gestione dell’imprevedibile. Il quadro diventa una sorta di allegoria: cosa succede quando un sistema strutturato inizia a disgregarsi? Cosa vediamo per primo: la struttura o la falla? Cosa privilegiamo: la bellezza dell’insieme o l’inquietudine insinuata dai dettagli?
In René Mayer c’è una forma di lucidità che si ricollega ad alcune analisi di Jean Baudrillard: siamo intrappolati in sistemi autoreferenziali, dove il caso è allo stesso tempo temuto e messo in scena come spettacolo. René Mayer non gioca questa carta. Non drammatizza nulla. Espone una meccanica della deriva. Ci mette di fronte alla lenta trasformazione dei punti di riferimento, al modo in cui un ordine visivo può diventare instabile senza che nessuno se ne accorga.
Questo rifiuto della teatralizzazione costituisce tutta la singolarità del suo approccio. Laddove il caso nell’arte contemporanea è spesso utilizzato per decostruire il quadro o creare una rottura visibile, René Mayer lo rende invisibile, fluido, organico. Il disordine non si mostra: si insinua. Obbliga lo sguardo a uscire dalla sua zona di comfort, senza provocare rifiuto o fascino. È una strategia di decentramento, non di sovversione.
Questo approccio conferisce alla sua opera una dimensione etica discreta. Nessuno slogan. Nessuna narrazione. Solo una superficie silenziosa che dice: guardate meglio. Nulla è stabile. Nulla è certo. Tutto può cambiare. E se non ne siamo consapevoli, non è per mancanza di segnali.
In questa prospettiva, il caso nell’arte contemporanea non è più un semplice procedimento: diventa rivelatore delle nostre responsabilità condivise. René Mayer non annulla il senso, lo riconfigura. Mostra come un’opera possa ridistribuire il campo della decisione, non più solo tra artista e materia, ma tra immagine e sguardo, tra stabilità formale e turbamento percettivo.
Un’opera in tensione – tra controllo e apertura
Ciò che colpisce nella recente evoluzione del lavoro di René Mayer è il modo in cui riesce a mantenere una tensione costante tra due polarità: da un lato, un rigore formale estremo, quasi matematico; dall’altro, un’apertura consapevole al caso, all’imprevisto, all’incontrollabile. Non cerca di riconciliarle, né di gerarchizzarle. Le mette volontariamente in attrito, come due forze contrarie che coesistono nello stesso spazio pittorico. Questa opposizione diventa il motore dell’opera, la sua dinamica interna, il suo respiro.
La pittura a pendolo non è un caso nell’opera di René Mayer. Al contrario, costituisce un punto di partenza, una base su cui tutto si costruisce. Il movimento del pendolo, soggetto alla gravità, genera tracciati fluidi e imprevedibili, che fissano immediatamente una vibrazione, un ritmo sotterraneo. Questo fondo, eseguito con una precisione quasi coreografica, viene poi ricoperto dai gettoni che la griglia compositiva domestica dispone rigorosamente. Così le fluttuazioni dei gettoni entrano in tensione con i movimenti del pendolo senza mai neutralizzarli.
Tutto è quindi pianificato, pensato, ordinato. Eppure, all’interno di questo piano, rimane una parte di apertura, uno spazio di respiro. Non è mai caos, ma non è più nemmeno ordine. È una zona di confusione, un limbo in movimento, una soglia percettiva dove l’occhio esita, oscilla, cerca un punto d’appoggio senza mai trovarlo completamente. Questo dialogo tra struttura e vibrazione è al centro dell’effetto prodotto.
Questa tensione conferisce alle sue opere la loro forza e unicità. Non si rivelano a prima vista. Richiedono un’attenzione prolungata, una lettura attiva, un impegno dello sguardo e del pensiero. Lo spettatore non si trova di fronte a un’immagine da decodificare, ma a un campo di possibili interpretazioni. Diventa egli stesso un attore del senso, coinvolto in un gioco di equilibri instabili. Nulla è dimostrativo, tutto è da sentire. Questa instabilità non è un effetto superficiale, ma un principio costruttivo. È ciò che rende le opere vive, contemporanee, in sintonia con la nostra epoca segnata dall’incertezza, dal cambiamento permanente, dalla perdita di punti di riferimento fissi.
René Mayer non fa arte casuale. Non si limita ad affidare la forma al caso. Fa arte che pensa il caso, che ne esplora le implicazioni estetiche, ma anche etiche. È una sfumatura fondamentale. Il caso diventa uno strumento critico, un modo per interrogare gli automatismi visivi, le certezze percettive, i sistemi di rappresentazione. Ed è questo che permette al suo lavoro di sfuggire all’aneddotico, al decorativo o all’effetto, per raggiungere una riflessione più ampia: sulla percezione, sulla responsabilità dello sguardo, sulle condizioni in cui abitiamo il mondo. In questo approccio, ogni quadro diventa un’esperienza percettiva, ma anche un interrogativo silenzioso: cosa vedo? E cosa non voglio vedere?
Conclusione – un’estetica dell’interrogarsi
Il caso, nell’arte contemporanea, è spesso utilizzato come provocazione, come rottura, persino come atteggiamento. Diventa un gesto spettacolare, un modo per mostrare una libertà radicale o una sfiducia nei confronti delle regole stabilite. In René Mayer assume una dimensione completamente diversa: diventa uno strumento di risveglio. Un mezzo discreto ma potente per mettere in discussione le nostre certezze. Non mira a sorprendere, ma a stimolare delicatamente. Non cerca l’effetto, ma la presa di coscienza. Il suo uso del caso è un modo per renderci attenti a ciò che di solito ci sfugge.
Integrando elementi casuali in strutture rigorose, giocando su minime derive piuttosto che su rotture visibili, combinando motivi simbolici con gesti imprevedibili, René Mayer costruisce un’opera esigente e lucida. Un’opera che non parla di sé stessa, ma del mondo. Un’opera che ci costringe a rallentare, a guardare in modo diverso ciò che crediamo stabile. Non è l’ordine che egli decostruisce, è la nostra dipendenza dall’ordine. Non è il caso che egli celebra, è la nostra capacità di affrontarlo.
In questo senso, René Mayer si inserisce in una tradizione critica, ma senza dogmi, senza dimostrazioni, senza pathos. Non denuncia. Propone. Non moralizza. Interroga. Crea spazi in cui lo sguardo può aprirsi a ciò che trema, a ciò che si muove, a ciò che sfugge a ogni fissazione. Instaura un dubbio metodico, ma senza disperazione. Ci ricorda che il caso non è una cancellazione del senso, ma una modalità del reale da prendere sul serio. La vera sfida del caso, per lui, non è lasciare tutto al caso, ma imparare a vedere quando, come e perché interviene. E capire cosa questo dice di noi, delle nostre scelte, del nostro rapporto con il mondo.
Si delinea così un’estetica dell’interrogarsi: una forma d’arte che non cerca di piacere o di scandalizzare, ma di suscitare attenzione. Una forma d’arte che rifiuta la facilità, che punta sulla sottigliezza, sulla tensione contenuta, sull’ambiguità fertile. Una forma d’arte che non chiude nulla, ma apre e invita a pensare.